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Pubblicato: 1 anno ago

La Regina dei miei desideri

di Beppe Liuzzo

Lo abbiamo desiderato, lo abbiamo atteso, lo abbiamo prenotato e infine Ti amo come un pazzo è entrato nelle nostre vite. Dopo Mina Fossati, un album che amo ancora tantissimo e che avevo atteso per almeno venti anni, l’uscita del nuovo album di inediti era per me motivo di innumerevoli interrogativi, di tanta curiosità e di tante, tantissime speranze. Ho rivissuto nell’attesa quella emozione che provavo da ragazzino che attendeva l’uscita dei doppi album negli anni Novanta: finché c’è stato il mistero (la copertina, il duetto, gli autori, le canzoni) e i soliti guastafeste da tastiera non hanno spiattellato tutto in rete, mi sono goduto pienamente l’aura di mistero.
Risultato? Soddisfazione piena, senza se e senza ma.

Trovo Ti amo come un pazzo un lavoro compatto, coerente, lucido ed estremamente commovente: non triste ma straordinariamente pieno di umana sensibilità. Un senso di fragile umanità che in tempi così folli mi mancava e che mi ha consolato e coccolato, un capitolo bellissimo in cui la voce matura di Mina gioca un ruolo essenziale nell’interpretazione dei brani. 

L’ascolto delle canzoni scorre sempre continuo, senza interruzioni e solo così può essere perché percepisco ogni singolo brano come un capitolo strettamente connesso a quello precedente e quello successivo: ascoltare l’intero album ogni volta è come rileggere una serie di storie di cui conosci i personaggi, le vicende e di cui cominci a conoscere a memoria il finale, ma non puoi fare a meno di rileggerli, perché ogni volta emerge qualcosa che rende l’esperienza nuova e irripetibile.

Questa sensazione, forse oggi più lucidamente percepita (sarà l’età o l’esperienza orribile degli ultimi anni), ancora una volta mi fa amare Mina “come un pazzo”, me la fa preferire a tanti altri suoi colleghi che pur ascolto e apprezzo. Perché? Perché la sua unicità, ed è l’elemento che mi tocca e mi colpisce ogni volta, è l’interpretazione: il suo modo di dire la parola, il suo modo di cadenzare e di mettere l’accento per creare sorprese ed evitare così il rischio del banale, per regalare alle parole la ricchezza che meritano. Con i testi Mina ci gioca, li arricchisce, cavalcando le intenzioni e governando con intraprendenza e finezza i ritmi e i respiri. Mina colora i toni delle parole dando loro pienezza e tridimensionalità.
Faccio qualche esempio, pur consapevole che ognuno, per l’umanità e la sensibilità che si porta dentro, può “sentire” delle sfumature che ad altri possono non fare effetto.

Personalmente adoro l’intenzione che usa in apertura di Fino a domani: “dammi certezze, dammi speranze” è un verso in cui le parole “certezze” e “speranze” vengono pronunciate in maniera quasi arrendevole, per farci subito capire che si sta parlando di qualcosa che non c’è.

In Zum pa pa, due episodi mi colpiscono. Quando canta la parola “equilibristi”, lo fa con un filo di voce, con una serie rapida di note sottili che danno subito senso di instabilità. In una frase poi accenna rapidamente a due sentimenti opposti (ma cosa ridi pagliaccio mentre io sto piangendo) senza esagerare, senza essere didascalica o troppo carica. Perfetta.

Nel duetto con Blanco c’è quel dove Dio creò in cui lei è pienamente, totalmente Mina: nessun’altra avrebbe potuto caricarlo, cantarlo e personalizzarlo così bene.

Un discorso a parte vorrei fare per Tutto quello che un uomo: una canzone che già amavo e con la quale, dopo Oggi sono io, Mina esaudisce inconsapevolmente un altro mio desiderio da cover (Ne avrei un terzo e visto che ormai mi legge nel pensiero, attendo fiducioso…).
La sua versione della canzone di Cammariere è sublime: il rispetto per la sua natura jazz e il ritmo più rallentato le regalano maggiore intimità, tragica consapevolezza ma anche un carico di emotiva sensualità. Adoro quando pronuncia la parola respiro, fermando il tempo sulla “i”: Mina in quel punto sembra quasi consumare l’aria per riprenderla a fine parola: annulla il concetto stesso di respiro per poi ridargli vita e senso.
E poi la parola malinconia: il suono si apre sulla “a”, lì si sofferma, toglie fiato e si chiude rapida, roca e triste. Infine, mi hanno colpito i versi “una pioggia di stelle”, in cui Mina, scandendo le consonanti e fermandosi sulla “e” di “stelle”, sembra quasi intenta a contarle donando a un’immagine semplice una credibilità unica.

Auguro lunga vita a questo album: non parlo chiaramente di classifiche, perché oramai la permanenza di un album in classifica è sempre meno collegata al valore di un’opera in sé, ma parlo di persistenza legata ad un ascolto nel lungo periodo. Credo sia uno di quegli album da gustare in varie fasi della vita: sa regalare spunti nuovi ad ogni ascolto e si percepiscono sempre imprevedibili dettagli persi prima. Ma è soprattutto un album che, ancora una volta, descrive perfettamente la maturità, la genialità e l’onestà intellettuale di un’artista che ancora continua a sorprendermi.