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Pubblicato: 4 anni ago

Dieci anni dopo: unicamente Rina

Il prossimo 27 giugno saranno trascorsi dieci anni dalla scomparsa della giornalista Rina Gagliardi, storica militante della sinistra italiana (fu senatrice per Rifondazione Comunista), cofondatrice de Il Manifesto e – soprattutto – grande appassionata di Mina nonché a lungo firma prestigiosa della nostra fanzine con la rubrica Incontro con Rina. Vogliamo ricordarla riproponendo un suo gustoso articolo – apparso n° 57 del 2002 – in cui azzardava col suo stile arguto e impagabile un “parallelo eccellente” tra Mina e Gioacchino Rossini. Passando per Maria Callas

LEI. LUI. L’ALTRA

di Rina Gagliardi

Il ritiro. La grande rinuncia. L’esilio. Quanti somo i ferventi e ingenui mazziniani che ancora sperano nel di Lei ritorno? Che ancora non capiscono che senza quell’epico gesto del 1978, Mina, semplicemente, non sarebbe più stata Mina? Che ancora di domandano, tra nostalgia e afflizione: perché?

Io credo di conoscerlo, questo perché. Accomuna molti grandi della Musica, ben oltre le barriere dello spaziotempo, e dei generi. Il perfetto omologo di Mina – colui che l’ha preceduta di quasi un secolo e mezzo – era anche lui un grande tra i Grandi: si chiamava Gioacchino Rossini. Smise di comporre opere liriche a partire a partire dal 1829, dopo il freddo successo di stima che accompagnò il suo ultimo capolavoro, il Guillaume Tell. Aveva 37 anni, più o meno l’età di Mina Mazzini quando tenne il suo ultimo mitico concerto dal vivo, in Versilia. Come Lei, era celebre, famoso, prestigioso in tutta Europa. Come Lei, aveva alle spalle un ventennio (poco più) di faticosa e pur folgorante carriera, tra problemi con i teatri e con gli impresari, amori non felici, malinconie ricorrenti. Come Lei, aveva un amore sviscerato per la gastronomia: per i risotti, per esempio. Chi conosce la stupenda aria del TancrediDi tanti palpiti, sappia che “il Cigno di Pesaro” la compose mentre cucinava uno dei suoi fantastici risotti al vino. Anche la Signora, dicono le cronache, ha una passione sviscerata per i risotti e una generale inclinazione ai piaceri culinari.

Ma non si fermano qui le analogie. Gioacchino e la Mina hanno vissuto in “esilio”, fuori dal sacro suolo della Patria, la loro lunga vita post-palcoscenico: da lontano, man mano, il loro Mito cresceva e – anzi – si ingigantiva, a dispetto di detrattori particolarmente agguerriti e stolidi. Rossini, come Lei, non cessò di fare musica: all’opposto, continuò a sfornare gioielli, anche e soprattutto nel genere sacro, come la meditazione lirica dello Stabat Mater, e una Petite Messe Solennelle di taglio così moderno da “sconfinare” in audacie novecentesche. Come Lei, godeva soprattutto a osservare il mondo contemporaneo (ormai, secondo lui, oppresso “da vapori, rapine e barricate”) con sovrano distacco e radicale ironia. Come Lei, soltanto dopo il ritiro si sentì davvero una persona libera. Un ritiro inseguito, perseguito, bramato – si può dire – fin dall’inizio. Un’altra delle singolarità che accomunano Mina e Rossini è proprio il singolare rapporto col lavoro, la carriera e, perfino, il successo: ambedue li hanno più subiti che realmente desiderati o assunti come uno stabile train de vie. Quand’era anziano, ammalato e in preda a ricorrenti crisi depressive, il sommo compositore de  Barbiere di Siviglia arrivò a dire che lui, la musica, la odiava e l’aveva sempre odiata: solo un paradosso, ma fino a un certo punto. In Rossini il “mestiere”, giust’appunto, era quello che gli serviva per rispettare i contratti, accumulare soldi, comporre lavori in pochissimi giorni, tante volte mettendo insieme pezzi tutti già usati (con l’Eduardo e Cristina raggiunse il record di un’opera-patchwork: 19 pezzi riciclati su 26!). Ma disprezzava profondamente in cuor suo l’incultura, il cattivo gusto, il conservatorismo in nome dei quali il pubblico e i critici decretavano il successo di un lavoro in cui lui non aveva messo né impegno né cuore.

Lui, come Lei, era un conservatore scettico più che un borghese: mise piede una volta sul traghetto da Calais a Dover, e giurò che sarebbe stata l’ultima volta. Salì su un treno, e si spaventò a morte. È vero che la borghesia stava affermando il suo dominio, con tutto ciò che questo comportava anche per gli uomini (e le donne) d’arte e spettacolo. Ma non tutti erano pronti a passare dalla tirannia delle corti a quella, tutta nuova, del pubblico, delle masse, del facile successo, del “divismo” – insomma, del mercato. Non tutti sopportavano l’incombenza di idolatrie spesso fugaci quanto passeggere, le necessità di compromessi con gli umori del tempo, i capricci combinati dei cantanti, degli orchestrali, dei critici nascenti. Rossini fu tra questi, Mina è tra questi. Non per spirito antiborghese, ma per esistenziale intolleranza ai costi della popolarità. Per aver rifiutato entrambi un “lavoro” – quello attivo, nella crudeltà della scena,  della performance, del contatto fisico perennemente subito – che non avevano, per la verità, mai intrapreso come tale. Per una innata pigrizia – una pigrizia curiosa, in ambedue, ricca di straordinarie produttività. Per il piacere del Gioco: e, guardacaso, ambedue sono entrambi riusciti a continuare a giocare a lungo senza pagare il prezzo. Per il piacere di dire, a un certo punto: Non gioco più.

Come il suo grande avo Gioacchino Rossini, Mina Mazzini pregusta il suo ritiro molti anni prima di compierlo. Anzi, lo annuncia in una canzone che a me pare totalmente autobiografica, Hey Mister, That’s Me Up On The Juke Box, italianizzata in È proprio così son io che canto da Giorgio Calabrese e contenuta in quel superclassico degli anni Settanta che è Cinquemilaquarantatré. Qui Lei parla di una “piccola città” rimasta nonostante tutto in fondo al suo cuore e denuncia il “vento di cose morte” che spira nelle “canzoni fatte di niente”  e soprattutto dice: “Sono io che ormai non ne esco più dalla torre di parole costruite intorno a me”. Infine, l’autoprofezia: “Forse ho già parlato troppo, me ne andrò, ormai…”. 

E poi, e poi… Dietro e dentro questi audaci paralleli, c’è una Verità musicale indiscutibile: se Mina fosse una cantante d’opera sarebbe, certo, una cantante universale, un “soprano assoluto” come Maria Callas, e la tesi non è del tutto ardita, se si sono scomodati a sostenerla  critici musicali autorevoli e togati come Rodolfo Celletti Luigi Pestalozza. Ma sarebbe sicuramente la più grande interprete rossiniana del nostro tempo. Col grande compositore marchigian-romagnolo, Mina condivide un senso ineguagliabile del ritmo, del tempo, dello swing (sotto molti aspetti lui era un musicista swing, con una enorme vena sentimentale). Ha lo stesso gusto surreale, iperironico, fantasioso. E ha la tempra giusta per eseguire la più parte dei ruoli femminili rossiniani: Rosina, Fiorilla, Isabella, Cenerentola… per limitarci alle opere buffe. Che cosa è Mina, in fondo, se non l’incarnazione di quel “soprano drammatico di agilità” che Rossini inventò e la grande Maria riscoprì? Una cantatrice che spazii “naturalmente” dal registro contraltile ai sovracuti e che sia capace, allo stesso tempo, di tendere la voce a tutti gli abbellimenti e agli orpelli necessari – direbbe Rossini – a non annoiare troppo un pubblico sua sponte disattento com’era quello che frequentava i teatri del primo Ottocento e a teatro faceva di tutto, dai banchetti agli incontri erotici alle pernacchie. Un’interprete intensa, espressiva, sfumatissima, ma anche ipertecnica: non sembra proprio il ritratto di Lei?