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Pubblicato: 3 anni ago

Mimmo mimetico

Presi com’eravamo, nelle prime settimane di quest’anno, a celebrare il ventennale di Mina in studio (che anche la PDU festeggerà presto con un’iniziativa ad hoc), abbiamo trascurato di ricordare i due decenni appena compiuti dall’album che di quel mitologico evento audio-video costituì in un certo senso lo spin-off discografico: Sconcerto. Rimediamo all’orribile mancanza riproponendovi la personalissima recensione che la nostra amata Rina Gagliardi scrisse per noi all’indomani dell’uscita del disco…

di Rina Gagliardi

(…) Lo so bene, lo so, che Mina è – come recita un suo vecchio disco – anche Altro. Pura bellezza virtuosistica, per esempio. Vitalità americana. E grande ironia, sovrumana capacità di distacco dall’oggetto canoro, o dal contenuto apparente di ciò che sta rappresentando. Anche questo lato della Signora mi piace, e non trascuro mai di inserire nelle mie antologie gioielli come Ma chi è quello lì? (e come quell’antica sopraffina chicca del Valzer minute). Forse, però, è una catarsi di segno diverso (quando ascolto la Traviata, per esempio, non sono sicura di preferire Sempre libera all’ineguagliabile e crudele duetto tra Violetta e Giorgio Germont), che funziona fino in fondo solo se si è in buona compagnia, o di umore davvero solare. Dev’essere per questo che Sconcerto – disco di assoluto valore artistico – mi ha, lì per lì, lasciata un po’ fredda. Un po’ dev’essere dipeso dalla scelta delle canzoni: Modugno, secondo me, è sommo nel primo periodo, poi si lascia andare a una produzione che sconfina di continuo nel melenso, anzi, a volte ci si tuffa senza freni. Un po’ è che, chissà perché, questo disco mi ha trasmesso la sensazione che la Signora non ami più di tanto il grande menestrello pugliese: in fondo, perché, se no, avrebbe aspettato tutti questi anni, una quarantina, per affrontarlo e impadronirsene, pur alla grande? Infatti, mi dico a seguito di un ascolto ripetuto, quel Modugno non c’entra poi molto con Modugno: non c’è nulla del suo spirito pop, non emerge mai la sua banalità nazional-popolare. Sono tutte creazioni autonome di Mina e dei suoi fantastici musicisti: un divertissement, appunto, libero, sfrenato e mimetico. Mimetico di Lei, s’intende: un’altra delle mie sensazioni è che Mina in questo disco svolga una sublime imitazione di se stessa, della ragazza dei ‘60 e dei ’70 che alternava scatenate serate in Versilia ad avvolgenti show televisivi. Ora che la sua voce non ha più confini, si può permettere, insomma, anche questo specialissimo rito: offrire nel 2001 un piccolo affresco allegorico di se stessa, dalle boutades de La donna riccia agli archi di Come hai fatto (ma non avete notato che sembra proprio una sigla Tv degli anni d’oro?), dal night-club di Resta cu’ mme al minimelodramma napoletano di Tu sì ‘na cosa grande. Tutte riscattate dalla fantasia e dall’humour, o dall’efficacia interpretativa (perfino una canzone per me insopportabile come Dio come ti amo diventa fruibile), senza mai esser prese sul serio. Ma forse, mi sbaglio anche questa volta, e scrivo sciocchezze. Capire davvero la grande Signora è quasi impossibile, come Lei ben sa. Io mi ci provo da quarantatré anni.

Da Incontro con Rina, n° 56, settembre 2001 – Photo Mauro Balletti