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Pubblicato: 14 anni ago

La Banda suona per me

Nel giorno in cui La banda dei Babbi Natale di Aldo, Giovanni e Giacomo debutta nelle sale e la Piccola strenna di Mina fa il suo felice debutto tra i top 10 album più scaricati su iTunes, il “minologus maximus” Antonio Bianchi fa eccezionalmente capolino nel nostro blog per regalarci il suo personale commento sull’ultima graditissima sorpresa mazziniana

Quattro bigliettini d’auguri. Quattro canzoni contro le abituali dieci-dodici. Il primo EP ufficiale (escludendo Cappuccetto Rosso/Cenerentola e i “promo” incisi per Wind) dai tempi Italdisc. E il primo a non essere pensato come accozzaglia di due 45 giri. Piccola strenna è un album in miniatura. E con i suoi quattro semplici dati rivela con disarmante chiarezza matematica la formula sottesa: diversificazione, a tutti i costi. Difficile immaginare quattro mondi musicali più diversi.

La grande sorpresa è Il sogno di Giacomo. Sopranile, cinematografica, morriconiana… Mi torna in mente Edda Dell’Orso. Non si era mai sentita una Mina così. L’unico precedente – non discografico – è il fugace arabesco sulla Io e te da soli di Lucio Battisti a Teatro 10. Taluni minimizzeranno l’exploit: “Sì, bella, ma non c’è il testo”. La penso al contrario: non sono mai stato un sostenitore del predominio dei testi. Amo troppo la musica per subordinarla a versi che ne intacchino la forza espressiva. Forse perché amo altrettanto la parola, nella sua nudità e pregnanza. E il sogno di Giacomo ha l’emozionalità candida, essenziale, assoluta che io associo all’idea di Musica.

Al secondo posto della mia personale classifica c’è Walking The Town. Il pezzo più citazionista. Mi tornano in mente le cadenze beatlesiane di Penny Lane, di Gettin’ Better, di Your Mother Should Know… Mille altri le hanno ereditate e personalizzate. Ma la genealogia riconduce al solo Paul McCartney. E per me, adolescente svezzato dai Beatles, queste atmosfere arrivano cariche di un affetto e di un’amabilità che non trovo più nella nuova musica, infarcita di un citazionismo correlato a mondi che non mi appartengono, non mi sono mai appartenuti e che – a ben guardare – hanno contribuito a uccidere affettivamente la musica e la discografia agli occhi della mia generazione.

Terza, con entusiasmo, Mele Kalikimaka. Il gioco, il divertissiment, il colorino lieve assente in Caramella (che resterà uno dei dischi di inediti più belli, densi e atmosfericamente compatti della produzione mazziniana). Mentre Walking The Town è citazionista, Mele Kalikilamaka è modellata sulla versione di riferimento di Bing Crosby e delle Andrew Sisters, incisa sessantuno anni fa. E mi diverte il fatto che Anna, la mia nipotina tredicenne, innamorata della musica come lo zio, con le idee chiarissime ed un culto per le scelte autonome, disgiunte da qualsiasi condizionamento (già in antitesi con l’Italia pecorona del Berlusconismo), se ne sia prontamente impossessata come traccia pilota della playlist natalizia da condividere con le amichette ciarliere di terza media.

Quarta, Stille Nacht, appartenente al filone – seriale – della Mina classica. Ne sono un sostenitore. Ma è legittima una piccola critica. Perché non spezzare l’uniformità? Perché replicare ogni volta lo stesso fondale strumentale? Tanta essenzialità merita un guizzo, un tocco di colore, una nuance discreta – purché nuova – che risalti sul monocromatismo. Così com’è, Stille Nacht è una gemma di madreperla in più in una collana di perle tutte uguali, perfettamente sferiche e proporzionate. Come quelle d’allevamento. Le perle naturali, più preziose, sono diverse: le piccole irregolarità sono emblema di unicità. E stavolta, ancor più che in passato, non c’era che l’imbarazzo della scelta: una celesta (il carillon che ingentilisce il Natale, commerciale, dei Christmas Album americani), i campanellini da slitta (quelli che alludono all’imminente arrivo di Santa Claus), un organo (quello dei canti natalizi religiosi, qual è Stille Nacht), una cornamusa (capace di evocare, con un pizzico di oleografia, un Natale popolano risalente ad un passato imprecisato)… Non c’era bisogno di eccedere: sarebbero bastati pochi tocchi, poche note, evocate in lontananza su un canale qualsiasi della proiezione stereofonica. Una lezione per il futuro: largo a violoncelli, viole, organi, arpe, oboi, fagotti, controfagotti…